Il Monte delle Forche, a ridosso del così detto Passo del Vento, si trova in uno dei punti più suggestivi dei Colli Euganei e suggerisce il nome a una delle cantine a cui – sinceramente – siamo più affezionati: quella di Alfonso Soranzo, appartata nella parte più alta di Zovon, frazione di Vò, a quasi duecento metri sul livello del mare. Di Alfonso, gigante modesto e schivo con braccia e cuore enormi, ci ha sempre colpito la generosa sensibilità. Fatta di una timidezza solitaria e composta tutta sua, capace di trasformarsi repentina in uno scatto, talvolta irruento, che nessuno (forse neppure lui?) si sarebbe mai immaginato possibile, specie quando si tratta di difendere le proprie ragioni in una conversazione che si rispetti. Suonatore di corno francese e chitarra, membro di uno dei gruppi musicali veneti più interessanti di fine Novanta (nome: Infranti. Genere: noise/rock. “Una delle sei band più potenti dal vivo”, secondo Il Teatro degli Orrori, in un’intervista su Rockit del 2015), Alfonso è stato – a suo modo, cioè senza scimmiottare nessuno – un pioniere garbato di un altro tipo di viticoltura possibile sugli Euganei, testimoniata anno per anno sulla sua pelle, prima di altri e in tempi poco sospetti. E il suo ricercare, a quanto pare, non si è ancora fermato. Nel vino come nella vita.
Alfonso, come sei arrivato al vino? Quando hai iniziato a farlo?
Io ho iniziato ragioneria, che però non ho mai finito. Poi ho studiato corno francese al Conservatorio Musicale di Padova, e ora strimpello ancora la chitarra a tempo perso. La mia prima vendemmia risale al 1999, quando ho prodotto le prime bottiglie di sempre: mille bottiglie di bianco e mille bottiglie di rosso. Fino ad allora la produzione era stata interamente gestita da mio padre, che faceva del vino sfuso, in piccole quantità. Lui era un operaio agricolo in una grande cantina e aveva una personale passione per l’agricoltura, che – secondo me – non riusciva pienamente a esprimere. Da quella prima vendemmia del 1999, un poco per volta, l’ho affiancato sempre di più, e ho cercato di portare il mio contributo personale verso un modo diverso di concepire l’agricoltura e il vino.
Oggi che tipo di vino produci?
Allevo due vitigni internazionali, Cabernet e Merlot, approdati nel nostro territorio nel 1850, che si sono a mio parere ben integrati. Nel corso degli anni ho preso parte a un progetto di recupero di alcune vecchie varietà locali: alla fine degli anni Novanta, infatti, l’Istituto per l’Enologia di Conegliano Veneto ha sviluppato un progetto sperimentale dedicato alle varietà autoctone, e nel 2004 mi ha assegnato tre diverse varietà da sperimentare personalmente: Pataresca, Cavarara e Marzemina Nera Bastarda. Nel 2008 ho piantato altre tre varietà: Corvinona, Turchetta e Recantina. Si tratta di piante di cui ancora non si conosce granché: sono state recuperate da alcuni filari sparsi qui e là in zone abbandonate del territorio euganeo. Probabilmente, vennero coltivate fino a fine Ottocento. Questa è una zona in cui si produce vino da secoli, ma al contempo non ci sono aziende “storiche”. La più antica è il Castello di Lispida, ed è proprio lì che arrivarono nel 1850 le stesse varietà internazionali.
Come definiresti la tua professione?
La Legge ci ha inquadrati come imprenditori agricoli. Però io ho il forte il sospetto che sia stato principalmente un modo per fregarci, per lusingarci, per paragonarci alle altre aziende. Secondo me, invece, chi ha davvero a che fare con l’agricoltura difficilmente può essere un imprenditore, almeno nel senso moderno del termine. Gli agricoltori sono delle persone che lavorano con la materia vivente, e il loro agire non è poi così prevedibile: a livello quantitativo, per esempio, non puoi fare conti precisi per l’anno successivo, perché prima devi vedere se effettivamente riesci a portare a casa quell’uva. Perché come sappiamo, a volte basta una mezzora di grandine, o una stagione particolarmente piovosa, per rimettere tutto in discussione anche all’ultimo minuto. Mentre il vero imprenditore, di solito, può fare i suoi conti tranquillo, lavora con più garanzie. D’altronde, è proprio questa sorta di imprevedibilità democratica ciò che mi piace di più del mio mestiere. Paradossalmente mi fa sentire libero, e mi permette di non adeguarmi passivamente a degli schemi consolidati e precisi. Questi possono essere di varia natura, e di diversa portata: da come si intende fare il proprio vino, a come e a chi venderlo. Una persona, per fortuna, a volte può scegliere di non adeguarsi a quello che il mondo ossessivamente le chiede. Non so, ma se mi guardo alle spalle ho l’impressione che io sia stato spesso al posto giusto, ma al momento sbagliato. Chissà, forse è un problema mio, del tutto personale. Ma è un fatto che tra i produttori considerati naturali, e in particolare tra i puristi del vino naturale, io non sia granché considerato. Nonostante faccia tutto esattamente come loro al di fuori di qualche milligrammo di solforosa. D’accordo, ci può stare. Eppure, dall’altra parte, nemmeno i produttori così detti convenzionali mi vogliono tra i piedi, perché faccio un vino evidentemente molto diverso dal loro. Ecco, non saprei spiegarmi meglio di così, ma alla fine, se ci penso, sono sempre fuori posto. Ma non per questo ho voglia di adeguarmi a schemi precostituiti, a seguire una moda. Né da una parte, né dall’altra.
Perché a un certo punto della tua vita hai deciso di provare a produrre vino?
Non saprei rispondere. In qualche modo, però, l’ho vissuto come un risveglio. Era un momento in cui dovevo fare delle scelte personali. C’era la possibilità di avere della terra, e quindi di poterla lavorare. E di punto in bianco mi sono appassionato al vino, che fino a quel momento conoscevo solo per il lavoro fatto da mio padre. Non ero mai andavo alle fiere, e mai ero stato nelle enoteche ad assaggiare o degustare in compagnia. Se è stato – come mi pare sia stato – un risveglio, francamente non saprei dire che cosa lo abbia innescato.
Come definiresti oggi il tuo vino?
È un riflesso limpido di quello che sono. Di quello che cerco, di ciò che devo ancora imparare. E così mi ritrovo di nuovo nella solita irrisolta situazione di ambiguità. Perché il vino che faccio rispecchia il mio atteggiamento verso il mondo lì fuori: mi sono sempre sentito fuori dal gregge, e a un certo punto non ho potuto far altro che accettare la sfida, e cercare di fare dei vini che andassero controcorrente. Sia da una parte (la corrente dei vini convenzionali) sia da quell’altra (quella dei vini naturali). Insomma, alla fine ho l’impressione che i vini che faccio siano solo una piccola estensione, forse un’espansione, di ciò che sono come uomo. Riflettono il mio carattere, i miei dubbi e le mie paure, il mio modo di relazionarmi con la società in cui viviamo.
Il tuo approccio alla coltivazione della vite?
Io sono partito dall’agricoltura convenzionale. Ma dopo poche vendemmie ho capito che non faceva per me. Scoprire i vini naturali, in questo senso, mi ha indicato una via. Perché nei primi anni Duemila ho assaggiato dei vini bianchi macerati del Carso Sloveno e li ho sentiti immediatamente di casa, vicini al vino che volevo provare a fare io. Quello che avevo prodotto fin lì mi aveva lasciato sempre insoddisfatto. Il passaggio però è stato lungo, e ci sono voluti molti anni per capire davvero quale vino volessi fare. In ogni caso, sono convinto che non si possano fare dei vini interessanti se non si cura al meglio l’aspetto agricolo. Per semplificare, ho capito che per fare vini davvero territoriali bisogna prima amare e rispettare la terra. Non la puoi uccidere, mentre lavori. È un po’ come se volessi bene a una cara persona e al contempo le preparassi sempre veleno per cena. In buona sostanza, io pratico un’agricoltura biologica, usando rame e zolfo a bassi dosaggi, il meno possibile, ben al di sotto di quanto è consentito dal disciplinare biologico stesso. Per concimare uso un buon letame di vacca compostato. Ma nel corso degli anni ho provato varie interpretazioni agricole, e svariate loro varianti: la biodinamica, l’omeodinamica, ho fatto per anni il sovescio e dato il 500 (il corno letame). Nel complesso, oggi lavoro seguendo uno schema di tipo preventivo, perché se si aspetta che arrivi la malattia per poi intervenire, bè, allora abbiamo perduto.
Il tuo processo di vinificazione come avviene?
Non filtro il vino e non ci aggiungo nulla, se non qualche milligrammo di solforosa nella fase della pigiodiraspatura e nell’imbottigliamento. Dalle analisi risultano al massimo 30 milligrammi di solforosa totale per litro. Sulle uve la impiego per gestire la fase della fermentazione, rigorosamente spontanea, che spesso è molto lunga, persino di un mese. Questo per evitare che si inneschi la fermentazione malolattica durante quella alcolica, così da arginare il rischio di una eccessiva acidità volatile.
In caso di necessità ti rivolgi a qualcuno?
Di solito mi arrangio, o al massimo parlo con qualche amico produttore, con cui ci scambiamo le reciproche esperienze. Tendenzialmente, cerco sempre di riflettere a lungo per comprendere il problema, per provare ad arginarlo, oppure per non ripetere più gli stessi errori che magari ho già commesso. Onestamente non capisco perché, nel panorama dei vini naturali, l’enologia venga così tanto disprezzata. Voglio dire: le pratiche enologiche esistevano anche quando non c’era la chimica. Cento anni fa, in Francia, facevano dei vini buonissimi come oggi senza l’utilizzo di tecnologia. L’enologia è la conoscenza di come affrontare la produzione del vino, acquisendo delle tecniche per risolvere i problemi che si possono incontrare. L’uomo può intervenire senza forzare la natura, utilizzando delle tecniche sviluppate intuitivamente. Ad esempio, se la fermentazione rallenta, invece di utilizzare nutrimenti in polvere (che so: sostanze azotate, amminoacidi, sale d’ammonio), quindi per ovviare all’utilizzo della chimica, posso banalmente aggiungere del mosto fresco, che possiede i nutrimenti utili ai lieviti indigeni. Questa è sempre enologia, non è mica chimica, giusto? O ancora: compiere un travaso nel momento opportuno, per esempio se il vino comincia a puzzare, è una pratica enologica sana, di carattere conoscitivo, esperienziale. In fondo, si tratta sempre di non trasformare il vino per confermare la propria idea, ma di accompagnarlo, senza interventi forzati.
Quanto ti ha coinvolto in questi anni il movimento dei vini naturali?
Come produttore ho partecipato per un po’ di anni ad alcune fiere dedicate ai vini naturali, come Vinnatur. Talvolta, mi piace partecipare a qualche piccola manifestazione ancora oggi. Però la mia impressione è che si sia smarrito lo spirito più autentico di alcuni anni fa, quando ogni fiera era prima di tutto un’occasione di scambio e una ragione di festa. Oggi, mi pare, prevale anche qui la logica di mercato, il profitto, la concorrenza. Vedo meno passione, poca filosofia, e principalmente una questione di soldi, contatti, ordini, prezzi, sconti e listini, un po’ come accade, appunto, in un mercato qualunque. La mia impressione, per sintetizzare, è che non si sia riusciti a compiere un salto evolutivo in termini di qualità delle relazioni, ammesso che interessasse a qualcuno. I vini naturali stanno rapidamente prendendo il posto degli altri? Di sicuro si beve più sano, e ne siamo tutti felici. Ma le persone? Ecco, mi sa che purtroppo le persone, quelle, invece non cambiano mai. Se fossimo stati un po’ più lungimiranti, forse oggi saremmo tutti al sicuro, sotto lo stesso tetto, con la nostra bella bandiera. E invece ci sono sempre più manifestazioni, e ancora ne nasceranno. Ci sono nuove divisioni, e ancora ne conosceremo. Ci ostiniamo a dire che uno è meglio dell’altro, a paragonare, a giudicare. E poi perché mai, quando c’è il Vinitaly a Verona, bisogna essere per forza anche noi da qualche altra parte? Non si può starsene a casa, per una volta? Forse a casa non ci vogliamo stare perché in fondo bisogna pur vendere? Ma io adesso mi chiedo: noi siamo prima mercanti, oppure agricoltori? Mi riferisco naturalmente alle piccole produzioni di tre o quattro ettari al massimo, a quelle che hanno le mie dimensioni. La risposta per me è sì, noi possiamo tranquillamente rimanere a casa. Possiamo chiamarci fuori, se lo vogliamo, possiamo smettere di rincorrere gli altri. Noi, se lo vogliamo davvero, possiamo ancora spegnere la televisione. Credo sarebbe necessario per poter placare questa frenesia. Il rischio, riparandoci dietro forme nuove e parole seducenti, è di riprodurre nella sostanza il cinico sistema convenzionale, votato solamente al profitto, che negli anni abbiamo tanto denunciato e criticato.
Il tuo rapporto con i distributori?
Con i distributori il rapporto è difficile. Tanti fanno i forti con i deboli e i deboli con i forti. Io sono debole, a livello di numeri e mercato, e spesso mi trovo a subire le loro strategie. Mercanteggiano sul prezzo non di rado con poco rispetto, e se non ti sta bene come dicono loro se ne vanno piccati. Spesso i distributori, come è normale che sia, fanno prima i loro conti e poi cercano il modo per imporsi. Io cerco il più possibile di collaborare con persone che condividono in partenza la mia interpretazione, il mio operato, e provano a valorizzarlo al meglio delle loro possibilità. Al momento, per esempio, lavoro con una piccola distribuzione di Mogliano Veneto, con cui mi trovo molto bene. E poi, per fortuna, ho diversi clienti diretti.
Ti rifai a qualche approccio particolare, nella degustazione?
A me piace molto l’approccio al vino che ha Sandro Sangiorgi. Si tratta di un metodo interpretativo di carattere personale, dove ci si mette in continua discussione. Spesso ci si crea delle aspettative sul vino che si ha di fronte, ma il vino non è obbligato a darti ciò che ti aspetti. Dobbiamo sapere che sono principalmente fantasie tutte nostre. È importante piuttosto ascoltare ciò che il vino ha da dirci, perché è lui il vero protagonista. Con Sandro le degustazioni avvengono sempre alla cieca. E questo, a mio parere, è molto stimolante.
Come si riconosce un vino buono?
Per quanto mi riguarda, il vino buono è prima di tutto il vino che mi piace. Non ho ancora risolto il problema di cosa sia tecnicamente un vino buono. Secondo me, sopra ogni cosa, dovrebbe essere riconducibile a un preciso luogo d’origine. E dovrebbe essere imprevedibile, capace di sussurrarci sempre qualcosa di nuovo.