Breganze, Mason, Fara, Sarcedo: ci muoviamo su e giù fra le colline vicentine alla scoperta di un giovane esuberante vignaiolo. Si chiama Davide Andreatta, e in arte è Il Ceo. Ci ha accolti con generosità e raccontato di come, una mattina d’inverno di qualche anno fa, la sua vita abbia imboccato una strada imprevista: quella – meravigliosa – di un ritorno alle origini. Sorseggiamo insieme la sua Vespaiola, mentre le bellissime foto in bianco e nero sono state scattate da Antonio Campanella, che ringraziamo.
Davide, qual è la tua storia personale legata al vino?
La mia famiglia, da generazioni, affida il suo sostentamento alla natura e ai suoi raccolti. La famiglia di mio padre allevava mucche e maiali, e ancora oggi coltiva cereali. Io sono nato in questo contesto, e in questo contesto sono cresciuto. Ho visto mia nonna coltivare l’orto con una cura e un amore commoventi, come se si trattasse di un prezioso giardino reale. E ho visto mio nonno fare il vino a modo suo, e lasciare sempre la sua tazza in cantina, vicino alla pipa, per i momenti di meritato riposo. Il mio primo ricordo legato al vino in fondo è proprio questo: il profumo della vecchia cantina del nonno. Poi a diciott’anni mi sono diplomato come geometra, e per otto ho lavorato come agente di commercio, ma non nel settore del vino. Ho vissuto per diversi anni in collina, a Breganze, finché un giorno, aprendo la finestra che dava sulle vigne adiacenti, ho rivisto con sorpresa due vecchi amici intenti a lavorarle: erano Enrico e Andrea, della cantina Il Moralizzatore. Sono sceso ad aiutarli, e poi ho continuato a farlo per tre anni di fila: finita la mia giornata di lavoro, levavo camicia e cravatta di ordinanza e mi univo a loro. Quella è stata la mia prima formazione in campo vitivinicolo: dalla potatura alla selezione degli acini in vendemmia, fino alla vinificazione, ho osservato e imparato molte cose. Ho ricevuto soprattutto le indicazioni necessarie sulle scelte da compiere in vigna, e sulle principali pratiche biodinamiche da utilizzare. Ho pure riscoperto la soddisfazione personale di stare immerso finalmente nella campagna, che avevo un po’ perduto.
Come definisci oggi la tua professione?
Semplice: faccio il contadino.
E che tipo di vino produci?
Lavoro utilizzando i metodi dell’agricoltura biodinamica, che poi per me significa semplicemente lavorare secondo natura e nel rispetto degli equilibri che ne conseguono. Vuol dire lavorare secondo ciò che la terra ti invita a fare, oppure, se preferisci, capendo ciò che lei non ti chiede di fare. Noi produttori abbiamo il privilegio e la responsabilità di preservare il nostro territorio, con le uve che lo hanno contraddistinto e che lì hanno trovato il loro equilibrio. “Equilibrio”, io credo, è la parola chiave di tutto. Ricercarlo assieme alla natura è fondamentale. Rispettarne i ritmi e i cambiamenti, esserne custode attento. Personalmente sono molto legato ai vitigni che sono stati in qualche modo il simbolo della zona in cui lavoro, in particolare Vespaiola e Groppella. Con loro, fin da subito, mi sono messo alla prova, e sono ancora oggi una sfida continua per carpirne le peculiarità e farle esprimere al massimo delle loro potenzialità. Anche se devo ammettere che alcuni vitigni internazionali che lavoro, come Merlot e Pinot Grigio, mi stanno offrendo inaspettate soddisfazioni.
Noti delle grandi differenze tra vitigni autoctoni e internazionali?
Le differenze sono molteplici e importanti. Dove mi accorgo della necessità di sostituire le piante, perché nel tempo devono essere rimpiazzate a causa di malattie o semplicemente perché avevano esaurito il loro potenziale naturale, cerco di reimpiantare i vitigni autoctoni che mi stanno più a cuore, Vespaiola e Groppella su tutti, dai quali faccio poi una selezionale massale, lavorando anche vigne di oltre settant’anni e potendo così attingere a un patrimonio genetico ampio e ricco. Le piante più vecchie mi stanno stupendo sempre di più, e mi danno le soddisfazioni più grandi. Vinificando a parte ogni diversa parcella dei miei vigneti, a seconda del terroir e dell’età, ho la possibilità di cogliere le diverse espressioni e poterle poi assemblare. In genere, si tratta sempre di piante lavorate da contadini responsabili, che avevano un’etica forte, e che lavoravano utilizzando tecniche rispettose del territorio. Non è un caso, io credo, se hanno cercato di salvaguardare proprio le varietà ben integrate: ogni territorio vuole i suoi frutti.
Cosa ti ha spinto, a un certo punto, a produrre vino?
Inizialmente l’ho fatto per un forte bisogno di cambiamento personale. Ma mi sono presto reso conto che il mio era in realtà una specie di lungo viaggio di ritorno: la riscoperta di una dimensione che è sempre stata mia, e che è appartenuta alla mia storia familiare. Ho sentito che finalmente avevo trovato il mio equilibrio personale, e la mia più intima realizzazione. Oggi mi fa stare bene vedere concretizzarsi il risultato di tanto impegno. Mi piace fare vino. Mi piaceva vedere mio nonno in cantina, la soddisfazione mentre beveva il frutto della sua fatica. Mi accorgo anche che vinificare mi dà la possibilità di raccontare una storia che fa parte di un territorio. Per arrivare al bicchiere c’è un lavorio costante di ascolto, in vigna e poi in cantina, sottile, minuzioso. Ho iniziato per gradi: da una manciata di vecchi filari ai quasi quattro ettari di oggi, sempre con basse rese, producendo quantità minime, per riuscire a capire, osservare, correggere il tiro, imparare, senza sentire troppa pressione addosso, in un processo di ricerca che non si è ancora fermato. Sono una persona curiosa, alla ricerca di stimoli nuovi. Mi piace potermi permettere il lusso di vedere le differenze tra i diversi tipi di cloni, le piante a grappoli spargoli e non, e la risposta alle basse rese nell’espressione dei vini. La qualità è ovviamente il mio primo obiettivo. In fondo, il mio primo cliente sono io, e vorrei solo dare agli altri quello che cerco di bere io stesso: un vino sano e sincero.
In caso di necessità, come intervieni?
I miei antagonisti principali, come per molti colleghi, sono oidio e peronospora, che combatto con rame e zolfo a bassi dosaggi, per cercare di diminuire il più possibile l’impatto dei metalli pesanti, sopratutto sostituendoli con induttori di resistenza e propoli, per stimolare le piante a un naturale rinvigorimento e spronare la loro capacità di difesa. Ovviamente non ho mai diserbato né usato prodotti sistemici. Io per primo voglio lavorare ogni giorno in un posto dove si possa respirare aria pulita.
Nel processo di vinificazione, come ti difendi?
Non c’è nulla da cui difendersi, a patto di portare in cantina uva sana e matura. In fondo il vino si fa prima di tutto in vigna. Cerco di avere la massima cura dei miei vigneti e in vendemmia se ne vedono i risultati, specie se il clima è stato clemente e gentile. La vendemmia è minuziosa e ovviamente manuale, per una fine pulizia dei grappoli che solo l’occhio umano è in grado di fare. In cantina, certamente, è necessaria la più scrupolosa pulizia delle macchine e delle vasche. Io uso vasche e cisterne piccole, così che le temperature, soprattutto in fase di fermentazione, non si alzino troppo. In questo modo non rischio di compromettere il frutto che cerco di far rimanere il più possibile intatto. Il vino, come vedi, è pazienza, costanza, impegno.
In caso di consulenze tecniche, a chi ti rivolgi?
Assaggio e analizzo periodicamente i miei vini, e questo mi aiuta a capirne l’evoluzione e come mi conviene muovermi in cantina. Un altro punto fondamentale è il confronto e il reciproco aiuto tra i piccoli produttori: nel tempo ho conosciuto colleghi, poi diventati amici, con i quali ci si confronta, ci si lamenta e ci si sfoga, ci si fa forza a vicenda, si condividono le esperienze.
Il tuo rapporto con il territorio?
Ogni giorno è una scoperta. Ho scelto di lavorare in un territorio a me vicino, ma dove non sono nato. Vicino eppure così diverso dal mio, e nel quale mi sono subito trovato accolto. Ho cercato fin da subito di ascoltarlo, questo nuovo luogo. I contadini della zona che conosco, e con i quali collaboro, sono alla fine i miei veri maestri. Segnati dal tempo, ma con una energia che sempre mi sorprende. Come le loro storie, che non mi sono ancora stancato di ascoltare. Ho portato la mia giovane esperienza e l’ho accresciuta con la loro. Seduto alle loro tavole ho avuto la fortuna di bere i loro vini, come il Torcolato o il Passito. Vini che hanno fatto conoscere il territorio, che rappresentano la lunga attesa, la pazienza, la speranza. Per la tradizione il Torcolato era il vino delle grandi occasioni. Alle donne che avevano appena partorito ne veniva regalata una bottiglia perché potessero riprendersi al meglio dalle fatiche del parto. Veniva venduto a peso, tanto era denso e per capirne l’autenticità. Un vino che non era mai abbastanza affinato: a quattro anni di età era ancora considerato un bambino. Un “putìn”, in dialetto. Storie come queste mi fanno sempre emozionare. E ora questo territorio lo sento un poco anche mio. Mi ci muovo con curiosità, e ne riconosco i segnali sempre di più. Anche se le sorprese, naturalmente, non finiscono mai.
E coi distributori?
Ho scelto che il 40% della mia piccola produzione resti in Italia. Ci tengo, la sento come una priorità importante. Ho scelto sempre, per la poca quantità prodotta, di non avere distributori in Italia, ma di avere rapporti diretti con clienti ristoratori, enotecari e osti. È un privilegio che voglio mantenere, almeno finché ne sono capace. Per l’estero invece ho la fortuna di avere incontrato persone che condividono la mia sensibilità e le mie scelte radicali sul vino. Sono soddisfatto del lavoro che sto facendo con loro, e felice perché sempre più stati, anche in Europa, si stanno reinventando e aprendo finalmente al bere naturale.
Chi berrà il tuo vino?
Spero che lo bevano tutti con il sorriso, e che faccia stare bene le persone. Perché è così che fa stare me. Nel 2011 ho assaggiato per la prima volta dei vini naturali e sono rimasto folgorato. Mi sembravano i vini che produceva mio nonno. Ho sentito di nuovo quel frutto, ho riscoperto un prodotto della terra che è prima di ogni altra cosa un alimento. Questo è quello che voglio provare a fare. Ho sempre pensato al vino come un compagno della tavola. Un esaltatore di gusti e di sapori. Il vino è convivialità: sa essere generoso di emozioni e allo stesso tempo un silenzioso compagno nelle occasioni più diverse.
Il tuo approccio alla degustazione?
Non ho un approccio tecnico. Mi piace osservare, ma non sezionare. Il mio assaggio è istintivo, di pancia. Non mi piace indagare troppo i profumi, cerco di accogliere ciò che il vino vuole svelarmi. Sono, anche qui, un ascoltatore paziente. In un vino sono felice di ritrovare il frutto e il terroir. Gustarne la polpa e la struttura. Non ricerco vini opulenti, ma fini ed eleganti. Mi piace soprattutto incontrare una forza che sia sobria, ma decisa. Capita poi di finire una bottiglia quasi senza accorgersene, tra le chiacchiere con gli amici e le persone più care. Ecco, il vino è finito, e ci si accorge che è stato con noi fino alla fine, ancora una volta, come un protagonista generoso e schivo.